[La luna e i falò]

Ottobre

October, 2006

Ottobre è un mese che mi piace. Mi sono sposata in ottobre, c’era un bellissimo sole e io avevo un vestito leggero.
In ottobre sono nati i miei genitori e mia figlia.

Metereologicamente è preciso, il mese della transizione all’altra stagione.
Gli altri hanno sempre un anticipo o un ritardo, ottobre è regolare.
Ci sono ancora i colori dell’estate, ma anche le foglie che ingialliscono e s’arrossano.
I crochi gialli e i ciclamini, adattati ai tempi e al piombo, ai bordi delle strade.
La mattina c’è quella leggera foschia, che a volte si trasforma in banchi.
Il sole è luminoso, perché il fresco rende più nitida l’aria, ma basta una nuvola e quelle mezze ombre fanno subito scuro il paesaggio
.

Tempo di passeggiate nei boschi, a cercare funghi; di delusioni, per certi rigonfiamenti delle foglie, che non celano niente.

Un tempo, mio padre aveva ancora le vigne, agli inizi di ottobre iniziava la vendemmia, quella alle vigne dai filari bassi, dell’uva nera per fare il vino. Quante vespe che giravano intorno alle mani.
Mio padre la mattina mi istruiva per un buon uso della forbice. L’orgoglio, quando mi diede la sua (quella da potatore).
Mio nonno ogni tanto, mi dava piccoli grappoli di uva dolcissima. Mi piaceva guardarlo mangiare.
La generazione, quella di mio nonno, aveva un modo particolare per sottolineare il piacere della degustazione, strizzava gli occhi, mentre masticava con gusto.
Tutta la faccia era partecipe del piacere. La mancanza di denti, aiutava la mimica, potevi vedere proprio il godimento.

I piccoli grappoli, ancora acerbi, venivano lasciati sulla pianta a maturare per l’inverno.
Portavamo il filare insieme, e poi trascinavamo le casse sino al carretto, attaccato al trattore.
E ci stava sempre un trattorista che non faceva niente, fumava e guardava con sgradevole insolenza le donne che vendemmiavano.

Da piccoli, la percezione è nitida, non indulge a compromessi.

Camminare tra i filari era difficile, perché l’umidità della mattina bagnava il terreno che si attaccava alle suole. Pareva una zeppa.
A me piaceva imitare i gesti dei contadini esperti, come mio padre, e pure io mi pulivo le scarpe con la “rasola” (una paletta di ferro) che toglieva il terreno dalle suole e poi pestavo l’uva nelle casse da vendemmia, per farcene stare di più. Mio padre mi rimproverava, perché poi erano troppo pesanti e lui le avrebbe prese sulla spalla per svuotarle nel carretto.

A casa, la doccia non toglieva l’odore dell’uva, anzi del mosto.
Adesso, iniziava una frenetica attività di lavaggi, riempimenti, e bestemmie.
Per fortuna c’era il nonno che calmava mio padre, che controllava di ora in ora con una pipetta (?) il livello di zuccheri.
Poi, lui e nonno trascinavano, come una portantina, una “deraspatrice“, con una grossa ruota.
Arrivava un signore con il carretto e il torchio di legno, trainato dalla mula. Aveva i “mustacchi” e sembrava un ussaro. Alto, magro e fumava il sigaro. Il marito di Giulia.
In paese tutti sono rinviati ad una parentela.

Riempivano il torchio con l’uva e iniziavano la torchiatura.
Io seduta sullo scalino a godermi la scena.
Nell’ultima torchiatura, recuperando le vinacce, mio padre aggiungeva l’uva bianca per fare il rosato e mio nonno sempre a ricordare che, prima, mica finiva lì. Con le vinacce residue, facevano la grappa.
Intanto mia madre con l’aiuto della nonna preparava i tini per metterci il vino. Quelli di legno, scuri per il tannino che di anno in anno li aveva rivestiti.

A camminare per il paese ti ubriacavi, in ogni strada c’era qualcuno a fare il vino per la famiglia, i più ricchi avevano il torchio, di metallo. C’erano anche due “trappeti”, ma mio nonno preferiva il torchio di legno.

A pensarci, in ottobre il paese era uguale alle rappresentazioni di Bruegel. Ce n’erano di personaggi!

Iniziava l’attesa e infine il novello.
Mio nonno era il degustatore ufficiale. Sempre quella faccia, quella mimica del piacere. Poi lo passava con un gesto di un amore infinito a sua moglie, nonna Angelina.
Non era generazione da “ti amo“. I gesti essenziali, complicità, condivisione, allusione e prendersi cura.

Intanto, però, era arrivata un’altra stagione, quella della raccolta delle olive.
Arrivava il freddo e altri racconti.

Certi posti

Sul mare.
Di fianco, una caletta con le barchette bianche azzurre, la scritta Mamma o S. Vito.

All’angolo aprono ricci e a sinistra c’è una vecchia torre di avvistamento, diroccata.
Lungo il sentiero, rossi fichi d’india ancora attaccati alle pale, in riva al mare tra gli scogli una colonna di cemento, spezzata.

In valle.
Un portico con il tetto di legno, panche e tavolaccio di fronte alla collina come a quadri del “divin pittore
A destra, un boschetto di lecci nocciola, rovi e rosse bacche di rosa canina. Un cane viene sempre ad uggiolare tra le gambe e poco più in là nitriscono cavalli.

Gigi porta il caffè, non dice mai parola, sorride con gli occhi, pieni del mare di Gaeta.
Azzurri come quelli dipinti delle bambole antiche.
Quando respiri ti puoi vedere i sospiri.

Sospesa.
Il soffitto è scrostato, ferro battuto ai balconi, bianco e azzurro.

Nessun orizzonte di fronte e lo sguardo si tiene basso a guardare la casetta degli attrezzi e dei vecchi giochi.

Per terra giallo e arancione, poco verde nelle foglie del caco. I grossi vasi, un tempo, raccoglievano una splendida collezione di piante grasse.
I corbezzoli, grandi e rossi, li mangiano le gazze, hanno il nido sull’arancio. La vasca vuota, senza pesci e i pergolati da potare.

Il caffè, lo preparo io.

 

 Weater Report –  14 gennaio 2007

A pelle 20 gradi, agli occhi non si muove foglia. Il cuore si allarga soddisfatto. Il cielo è azzurro. Bianche solo le strie dei reattori. Il mare increspa a riva. All’angolo aprono i ricci, seppure gennaio non abbia erre nel nome. E le signore e le signorine, ostinatamente, con pelli altrui attorno al collo, non smettono di fumare e sbirciare in giro per ammirare il paesaggio. Che non bisogna fidarsi di questi caldi e non ci sono più le stagioni [raccontano alle amiche]. I bambini si prendono bei scappellotti, perché si scamiciano, fan finta di scivolare in acqua e spruzzano e bagnano. Poi si raffreddano. Vedi, le stagioni tornano, con le punizioni. Più in là attaccati, gli orti. I prati verdi. Sotto le vigne intricate, rape selvatiche, bianche da cucinare in soffritti con le linguine. Piccole calendule da seccare per l’infuso e per il colore, giallo e arancione. Hanno portato fuori le vacche ai pascoli. Eppure i pettirosso saltellano a terra per cercare molliche. Mi hanno raccontato che fan così per i grandi freddi. Mi hanno incantato o hanno confuso i passerotti. E mi inquieta mia madre. Non mi ha detto “eheh primavera” vedendomi arrivare leggera di vestiti. Mi ha fatto mancare la cantilena delle nonne “vedrai come la piangeremo questa giornata.” Mio padre non ha più certezze. Potarli o no gli alberi e le vigne. Cerco di convincerlo con gli studi sull’atmosfera, gli spiego l’effetto serra e le previsioni della scienza. Mi risponde con le tradizioni e i deja-vu. Neppure lui allunga lo sguardo al futuro. E’ rimasto alla sua antica, forte ostinazione. A me non dispiace tutta questa stagione, eppure mi ha portato via Felix. E’ sparito dietro chissà quale coda, dietro agli inganni di questi tempi. Gli hanno fatto credere che le gatte aspettano amori e regalano primavera. Il tramonto è lungo, ha il colore del corallo dei cammei, a tutte le cose aggiunge un po’ di rosa. Ma mi manca tanto quell’altra stagione, quella che per un po’ di mesi metteva tutto in silenzio.

Slow – 16 dicembre 2007Preparativi 21 dicembre 2007

Risveglio dolce, tenero. Morbido, ambrato, lucido e profumato. Vin cotto.
Che con il vino centra poco, siccome è uno sciroppo fatto con i fichi.
La vicina che ha la finestra sul mio giardino, si è alzata presto per preparare le cartellate. Dolce tipico pugliese, delle feste di Natale.
Su quella piccola veranda, al riparo da sguardi e atmosfera ha ricavato un piano cottura, per friggere.

Ma quando mi sono svegliata, aveva già finito e bolliva già il vin cotto. Non c’è un filo di vento, e gli odori stagnano intorno, nell’aria. Forse non è l’unica che si è alzata per tempo.
Peccato che hanno chiuso il forno vicino casa. Permetteva, (tra i servizi alla clientela), alle signore di far cuocere la classica “tiedd” (tegame di agnello con lambasciuoli), la “focaccia a livre”(focaccia a sfoglia, buonissima, altra specialità della tradizione), i dolci ricci (pasta reale) e le “cartellate”.
Io preferisco quelle fritte. Ne mangi di meno, ma segui la tradizione e il buon gusto.

Prima, c’erano i forni a legna. Tre nel paese. La nonna Angela abitava nel centro storico, vicina al forno più importante. C’era un via vai continuo di donne con i tegami, portati in testa, appoggiati su un fazzoletto di cotone, la spere (o l’aspere).
Senza mani, per bilanciarsi tenevano le braccia, come manici di anfora, appoggiate sui fianchi.
Larghi fianchi, avevano le donne, un tempo, e la vita stretta. Forse era quello il segreto, per poter portare un tegame, sulla testa, senza tenerlo con le mani.
Io le studiavo, per capire come facessero. Sicuramente non ancheggiavano, piuttosto roteavano, con grazia e noncuranza.
Le più brave ne portavano più d’uno.
Io chiedevo, curiosa, in italiano “Signora, per piacere, che porti al forno?” Abbassavano il tegame per farmi vedere.
Menenne” mi chiamavano.

Al forno spesso litigavano, accusavano il fornaio di aver rubato i biscotti. C’erano quelle che non si muovevano per controllare. Mettevano la mandorla, legumi, ditale o le iniziali di pasta di pane, nei tegami, perché non si confondessero. Non tutte avevano un proprio tegame di ferro nero, (da forno, rettangolare) e la mattina si alzavano presto, per farseli dare dal fornaio.
Al ritorno, quando passavano, se ero seduta sugli scalini, senza che chiedessi nulla “ne’ menenne” e mi davano un biscotto o mi riempivano il pugno di mandorle tostate.
I giorni dei mal di pancia.
Troppe mandorle, tostate o pelate. Aiutavo la nonna a pelarle. Mi scottavo le dita, ma sopportavo tutto, pur di essere là, per i preparativi.
I maschi venivano cacciati. Un impiccio e poi erano sempre con le mani in pasta. Per assaggiare, dicevano.
L’unica cosa che veniva loro permessa era di schiacciare le mandorle.
Mia madre era sempre presente, faceva i dolcetti per tutta la famiglia, sua e per quella di suo marito. Ha conservato la tradizione, ancora oggi è sempre e solo lei.
Dice che ora tocca a me continuare e che è tempo.

In cucina c’erano tanti profumi, di limone grattugiato, di liquore, di zucchero caramellato, di cannella e di chiodi di garofano.
Ero ipnotizzata dalle mani veloci che impastavano, tiravano, posavano, tagliavano. Richiudevano.
Io potevo, con la forchetta, chiudere i “quezzelicchi”, i fagottini ripieni di pasta di mandorle pelate e tritate, aromatizzata, con cannella e buccia di limone (o ricotta o marmellata).
Vengono poi fritti e passati nello zucchero con la cannella. Oppure ‘ngileppati.
Questa era una attività che faceva innervosire le donne di casa.
C’era, per fortuna, sempre, una vicina che sapeva prepararlo, bianchissimo, liscio, lucido e compatto, il “gileppo”.
Una copertura per i dolci di mandorle o i biscotti, preparato con zucchero, fatto sciogliere sul fuoco, a cui si aggiunge l’albume montato a neve. Vi è pure una versione più leggera, senza albume, chiamata “naspro”.

Per farmi “impratichire” mi davano i ritagli di pasta. Non ero brava né a stendere né a confezionare. Facevo finta di non essere molto interessata. Non sopportavo che mi dicessero “vedi sei ancora piccola”.
Nonna Angela, però, mi aiutava e così anch’io potevo portare al forno, il dolce fatto da me. Serviva come segnaposto, per il riconoscimento del tegame.
Mi raccomando”, diceva la nonna “a cuocere, che questo l’ha fatto la menenne”.
Che orgoglio. Tutti che mi facevano i complimenti, nel forno.

In ogni casa, per tutto il paese c’erano gli stessi odori, gli stessi profumi.
Almeno per quella settimana, tanta dolcezza tenera, ma pure croccante come il torroncino bruciato, fatto con le mandorle tostate o quello fatto con le mandorle tostate e i cubetti di pasta frolla, legati dal miele.
Il giorno di Natale non mangiavo quei dolci, preferivo il panettone e il pan di Spagna con la crema.

Mi piacevano i preparativi, perché si stava tutte insieme in cucina, con la mamma, le nonne le zie.
Io le guardavo, nell’aria volava anche la farina, c’era una vera atmosfera di favola e magia.
E tutte eravamo un poco streghe, ma di più, fate.

Sweet home Puglia 26 giugno 2007

40 gradi, non fanno ancora il deserto.
Ma questo cielo giallo, come tempera alla quale si è aggiunto troppo bianco, sta scolando sulla terra.
I colori sbiadiscono sotto i gradi che aumentano.
E si mette pure il vento, solleva la polvere, la impasta nella biacca.
L’acquerello diventa gesso, si spacca.
La Puglia è terra che rischia la desertificazione.
Non riesco a immaginarla senza cieli azzurri.
Sono tanti, quanti gli orizzonti che puoi guardare e l’azzurro ha sfumature diverse. Si accende con il bianco della calce e della pietra. Si scolora sui tavolati di grano o sul mare.
L’orizzonte mostra che nella sfida, vince il mare.
Immaginarla senza fossi e margini colorati del giallo dei crochi e delle calendule. Arsa e bruciata dopo le trebbiature.
Ogni fenditura accoglie vita. Sulle scogliere a picco la pianta del cappero, con i lunghi pistilli di porpora e il profumo lieve.
Tra le dune sabbiose, i gigli acquatici e le canne, allungano le radici sino alle sorgenti.
Ho annotato, le perdite.
Il timo, poi la menta spigolata e le spatole e le orchidee selvatiche. I rovi con le more. L’edera e la salsapariglia. Il piccolo convolvolo con i fiori bianchi e rosa o lilla. La pervinca. Il caprifoglio, la pastinaca, i cardi. L’iperico, il finocchietto selvatico. La camomilla, la rosa canina e gli aglietti selvatici. Il papavero sonnifero.
Qualche seme portato da uccelli, lo aveva naturalizzato in qualche fosso.
Veniva coltivato dai contadini per farne un decotto (la papagna). Contro l’insonnia e per “far stare tranquilli”i bambini irrequieti.
Scomparse intere macchie di rovi e roverelle.
Prima fu il fuoco portato dell’uomo, poi quello scagliato dal Dio adirato, dal cielo.
Un paese ci vuole, non fosse per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. (Cesare Pavese, La casa in collina)
Inutilmente l’acqua cerca scampo, nei cunicoli che ha scavato nei secoli. Sono aumentati i pozzi. Deve esserci tutto un mondo liquido che scorre cercando riparo.
Il Consorzio ha le trivelle, i contadini i voti che valgono più dell’acqua.
Sprecata, inutilmente, dai rubinetti lasciati aperti, zampilla, fuggitiva.
40 gradi, una terra che brucia non dà illusioni.
Le farà specchiare questo giallo fermo, neppure il tempo di una Ave Maria.
E così sia.

°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°

San Vito – 15 giugno 2007

abazia san vito
Abbazia di S.Vito – Località S.Vito, Polignano a Mare

La mattina del 15 giugno, San Vito, eravamo svegliati dalla “bassa musica” di Michele, di suo genero e di un loro amico.
Bassa, perché formata da un tamburo, un piffero e i piatti.
Michele, l’estate girava in paese, con la macchinetta per macinare i pomodori, per la salsa, nel resto dell’anno, aveva una bottega da stagnino.
Il genero, invece, che faceva il muratore, aveva sposato la sua unica figlia femmina.
Una ragazza esagerata.
Portava i capelli, neri come corvi, pettinati come la Cinquetti, in “Non ho l’età” più cofanati, però.
Metteva lo smalto e il rossetto di eguale colore: Rosso Montalcino.
Portava la minigonna, su un paio di gambe corte e grassocce, come quelle delle galline, sottili alle caviglie, con polpacci sempre tesi dallo sforzo di stare sui tacchi alti. Aveva le ginocchia grandi, con vari avvallamenti.
Eppure, il marito, quello del piffero, era un bel ragazzo con gli occhi azzurri.

La via dove abitavano era proprio via S.Vito e sulla loro casa c’era una edicola, a devozione, del Santo.
Giravano, con la banda, attraversando tutto il paese, con i ragazzini che correvano dietro, suonando strumenti improvvisati, pezzi di legno, ciabattine soprattutto.
Quel Santo, comunque, già lo conoscevo, pure inconsapevolmente.
Era tra i santini che nonna aveva messo nell’abatino a forma di cuore che mi aveva cucito e che portavo attaccato alla camicina.
Stava insieme a S. Lucia, S. Rita, i S. Medici e S. Rocco e a delle pietruzze (sempre insieme, sacro e profano).
Ognuno mi proteggeva da qualcosa.
Mi piaceva quel Santo, perché aveva i “cacciuoli”, come diceva mio nonno. I due cagnolini e la palma, in mano.

S. Vito è anche una località di mare, dove i nonni prendevano casa l’estate, perché il nonno doveva fare le sabbiature.
Le nuore e le figlie andavano a stare da loro, a turno.
Non più di due per volta. Era l’occasione per incontrare le cugine.
La mattina, ci alzavamo presto e andavamo nel porticciolo ad aspettare i marinai, per comprare la cassa di sarde o alici.
Spesso, mentre le donne pulivano il pesce, i maschi facevano la brace sulla spiaggia. Si mangiava pesce arrostito a colazione, con lunghi sorsi di birra, i grandi, l’aranciata o la gazzosa, noi bambine.
Mangiava persino mio padre, a cui non piace il pesce azzurro, perché, secondo lui “sa di mare”.
Mia madre mangiava le alici più piccole, crude, con il limone.
Alcune mattine, quando il nonno andava alle sabbiature, ci incamminavamo per raggiungerlo.
Dal porticciolo, una ripida strada giungeva ad uno stretto passaggio, tra due colonne.
La statua di S. Vito, di pietra dipinta con colori vivaci, ne sormontava una.
Attraverso campi, si raggiungeva un’altra spiaggia, dove il nonno faceva le sabbiature.
Spesso, incontravamo le vacche al pascolo, perché lì vicino c’era una grande masseria. Qualche volta c’era pure il toro.
Per questo non mettevo niente di rosso. Ma le cugine, che erano dispettose, tiravano fuori un fazzoletto rosso, per farmi spaventare.
Una volta, abbiamo fatto una bella corsa.
Al ritorno, il nonno mi metteva “a cavalluccio” sulle spalle e mi faceva prendere i fichi da alcuni alberi, piantati oltre il muretto di pietra di calce.
E se passava l’uomo del ghiaccio ci prendeva la “rasca rasca”.
Quando oltrepassavamo le colonne, per tornare a casa, il nonno si faceva il segno della croce per devozione al Santo.
Difatti, proprio di fronte, c’è l’Abbazia di S. Vito, costruita su una rupe, ricamata dal tempo e dall’acqua.
All’interno, le case sono affittate per le vacanze estive e si vendevano i pomodori per fare la salsa, coltivati negli orti vicini.
Affacciandosi dalla loggia, sulle mura, si vede il mare e una torre di vedetta.
La spettacolare vista delle alte scogliere di Polignano è stata cancellata dalla costruzione di case e ville estive.
Fuori, vicino alle porte dell’Abbazia, in alcuni locali c’è il bar.
I grandi andavano la sera a giocare alle carte e a bere birra.

S. Vito è pure un ballo e una malattia.
La nonna (di origini campane) lo confondeva con il morso della tarantola.
Lei non sapeva ballare “la pizzica”. Sua sorella Maria, più piccola, invece, era bravissima.
Con il fazzoletto piegato a triangolo, tenuto dai bordi, tra indice e pollice, scivolava sul pavimento con quei piccoli passi.
Il suo cavaliere, con che perizia la corteggiava, con insistenza, con lo stesso ritmo ossessivo della tammorra.
Alla fine, lei cedeva e dopo tutta quella serietà, si apriva al sorriso.
Una fatica.
Questo pensavo, quelle volte che l’ho vista ballare.

Sono molti a festeggiare S.Vito, come onomastico. Maschi e femmine. Viene anche associato a un secondo nome, ad esempio. Come protezione. “Santo Vito” si dice ancora, per scaramanzia, quando ti complimenti per la buona cera di uno, per la riuscita di un’altra.
Vito e Vitina.
Sono due vecchi amici di mamma. Ottantenni.
La prima volta che ho conosciuto Vitina, mia madre mi disse “ questa è come la mamma”.
Non mi piacque subito, un’altra mamma, ora che ero appena tornata a stare con l’originale.
Era molto gentile, invece, forse, come diceva mamma, perché le avevano ucciso il padre. Un grave fatto di sangue, avvenuto anni prima.
Un omicidio passionale. Lui aveva fatto da paciere e, per vendetta, lo avevano accoltellato.
Vito, il marito, sorrideva sempre e mi faceva ridere.
Poi, mi piaceva la stadera che aveva nel garage.
Mi facevo pesare e aspettavo che aggiungesse i pesi di ferro da un etto o due sino ai dieci grammi.

Da una decina d’anni, Vito non riconosce più la moglie e quando la vede dice “signora, ma ci conosciamo, mi sembra di averla vista da qualche parte” e sorride, ancora.
Non è uno scherzo. Ha perso la memoria.
Chi non ha memoria non ha più vita.
Resta l’illusione, per chi guarda la crudeltà della malattia, di fare rimanere frammenti di quella vita persa, nel proprio ricordo, nella propria memoria.
Trattenerla, per sempre, nel racconto.

Aggiornamento: Vitina è stata ricoverata in ospedale, è caduta e si è rotta il femore.

Il ballo di San Vito , Vinicio Capossela

°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°

Una madre 26 giugno 2007

L’ostetrica era ubriaca.
Arrivò, dopo che il freddo l’aveva chetata, accompagnata, in macchina, dall’amante.
Solo per prendersi i soldi.
Mia nonna, le doglie le sapeva riconoscere, nel silenzio che assaliva all’improvviso la faccia, mentre la bocca si storceva per il dolore e le mani correvano a tenersi la pancia; nel grido che mia madre, inutilmente, voleva liberare.
Le teneva una mano sulla bocca, glielo respingeva in gola il grido, si lasciava mordere.
Non c’era fiato da sprecare.
Aveva preparato tutto, sapeva già che la “mammara” si stava facendo riscaldare dal vino e dal ventre grasso dell’amante.
L’aveva fatta chiamare solo perchè tagliasse il cordone.
Una stravaganza fare tagliare il cordone ad un’ubriaca, ma mia nonna aveva paura.
Era chiamata, con scherno, dalle figlie, “la dottoressa”, perché conosceva la medicina tradizionale, inventava rimedi e dava spiegazioni.
Aveva le sue convinzioni.
Per esempio, che la vita fosse racchiusa nel cordone e che di lì passasse nell’ombelico.
Non andava toccato. Era la porta della vita.
Il dolore fisico pareva che non la riguardasse.
Aveva sempre partorito da sola, mia nonna.
Quando sentiva arrivare le doglie, mandava mio nonno a chiamare la mammara. Cacciava tutti, non le sarebbero stati d’aiuto, solo un impaccio potevano essere e per la rabbia l’avrebbero costretta ad urlare, impotente.
Non c’era fiato da sprecare.
Accoccolata, con le gambe aperte, partoriva. E restava attaccata a quel cordone che non avrebbe mai reciso da sola, nell’attesa che arrivasse la mammara.

Ero la sua pupilla, per quella combinazione di non esserle figlia, ma di avermi fatta nascere.
La sua allieva prediletta.
Chi è la madre? Non lo impari mai.
La riconosci, quando c’è.

Mi portava sempre con sé la nonna. Per mano.
Un giorno di giugno, di buon mattino, mi fece vestire con un abitino leggero, di battista. Dovevamo andare in un posto, io e lei.
Le zie non vollero venire. La nonna prima si arrabbiò, poi le lasciò stare.
Porto Angela” “E’ venuta coraggiosa come me
Avevo sei o sette anni. Non le chiesi dove saremmo andate, la risposta mi inquietava e non l’avrei mai delusa.
Sono coraggiosa come lei”. Pensavo.
Camminammo a lungo.
La nonna non diceva neppure una parola. Mi dispiaceva, perché mi piaceva ascoltarla, mentre mi raccontava storie vere o inventate. In italiano, lentamente, per non sbagliare le finali.
Che bella nipotina” dicevano le signore che incontravamo.
Lupe te fotte lupe te fotte” ripeteva tra i denti la nonna, per non farsi sentire e ficcava il pollice tra l’indice e il medio, piegati.
Mi divertivo, era l’unica frase in dialetto che mi faceva ripetere con lei.
E mi faceva fare anche quel gesto proibito. Poi ridevamo insieme. Senza esagerare.
Temeva la fascinazione della gente, come il contatto con l’ombelico.

Avevamo attraversato tutto il paese e camminavamo lungo una strada che portava solo in un luogo.
Il camposanto.
Mi stava portando alla riesumazione di sua figlia.
Era morta, quando aveva otto anni, al tempo delle processioni, in giugno.
Se ne andò, mentre le verginelle, seguivano la testa decollata di San Giovanni.
Il medico da giorni aveva detto che non c’erano speranze, peritonite.
Ma “la dottoressa” volle verificare con un’ultima diagnosi, la chiara dell’uovo.
Appena questa affogò nell’acqua non ci furono dubbi.
Tutte quelle figurine, disegnate dai filamenti di bianco erano le verginelle che avrebbero seguito la bara.

L’uomo del camposanto aveva già tolto la terra, della bara di legno restavano solo frammenti marci.
Mia nonna si era vestita di nero.
Si è messa in ginocchio, con le gambe aperte, come se stesse partorendo e con le mani ha iniziato a setacciare la terra, palmo a palmo.
Lentamente, carezzandola.
Cercava nella terra, spazzando piano, quello che restava, povere ossa
.
L’uomo del camposanto, le dava fretta. Lo guardò e quello sparì nella terra, accanto.
Mi raccontava della bimba, della malattia, delle verginelle.
Riaffioravano brandelli di vestito, che la nonna scuoteva con cura, come se la bambina fosse ancora lì.
Dalla terra, fertile, le mani affondate cercavano le ossa.
Insieme le pulivamo con l’alcol e le appoggiavamo su un grande fazzoletto di lino bianco, ricamato con le iniziali della bambina A.G.
Per ultime, prese le ciocche di capelli che il terreno aveva custodito.
Per paura di spezzarli, li carezzava come se li stesse pettinando. Piangeva.
E si dondolava sulle ginocchia.

Prese le cocche del fazzoletto, le annodò dopo averle incrociate, fece un fardello, uguale a quello in cui mettevano i bambini.
Iniziò a cullarla, stringendola al cuore, rallentando piano piano, come quando il piccolo si è addormentato, per paura che un movimento brusco possa svegliarlo.
Piangeva. Straziata negli occhi e nel sorriso. Tra le braccia si ninnava il dolore.
Poi ripose il fardello nella culla di latta, che l’uomo del camposanto avrebbe chiuso, per sempre.
Tornò a setacciare la terra smossa. Senza più riguardo.
Con rabbia, sollevava la terra, come si fa col grano, col setaccio, per separarlo dalla crusca.

Si stava sporcando il vestito.
Quando tutto il terreno fu passato, la nonna chiamò il camposantiere.
Dammi l’anello” gli sputò in faccia, con le mani sporche di terra, pronte a prenderlo per il collo.
Tu si matt” Gridò l’uomo.
Ti lascio morto in questa fossa” “Dammi l’anello
Non ne so niente, sono quelli della sepoltura che fanno tutto, tolgono tutto, prima di chiudere”.
Era disperata. Non era il valore dell’anellino.
Quella mancanza le dava delirio.
Sulla terra restava qualcosa della sua Antonetta, sulla mano di estranei.
L’anello non avrebbe dato pace a quella mancanza.
Lo maledisse, gli maledisse la moglie e i figli, gli augurò tormenti e una fossa poco accogliente, pure da morto.
Poi prese quella cassa di latta, tra le braccia, per portarla all’ossario. Con la mano libera, si tolse la terra dalla gonna, diede una rassettata alle trecce e mi prese la mano.
Camminavamo nel cimitero, vuoto.
Quelle statue davanti alle cappelle gentilizie mi spaventavano.
Lei, camminava, ma non stava là, con me.

Le strinsi forte la mano, poi sarei stata da capo coraggiosa.
Nonna…” stavo per mettermi a piangere.
“Sta qua la nonna”.

°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°

25 Aprile [25 aprile 2007]
annunciazione

“E’ iniziato il lamento.”
Così mi ha detto la padrona di tutto a mille.
“Fa caldo e in campagna tutto langue.”
Ha detto proprio così.
“Pioverà quando c’è da raccogliere le ciliegie.”
Ha terminato, scuotendo la testa.
Mi sono fermata per vedere se aveva dei coperchi. Non ce n’erano e per non far figure, ho comprato delle mollettine con le margherite e con le coccinelle.
In effetti fa caldo. Il sole sta tramontando e fa caldo. E’ l’orario giusto per lasciare le strade principali zeppe di macchine che tornano, e percorrere quelle secondarie. La campagna prende fiato, dopo la giornata calda e respira. Io con lei, tutti i profumi dell’erba e delle piccole mandorle tenere.
Ma non si possono più mangiare, nè si possono strizzare gli occhi per la bocca acidula.
E non posso trattenermi a lungo.
Questi nuovi giovani contadini sono molesti.
Con i padri potevi chiacchierare e ridere. Questi hanno ereditato le terre.
Sono arrivati un po’ tardi, non c’erano più posti. Hanno preso il pezzo di carta e poi sono tornati alla campagna.
La odiano. Non hanno la coerenza d’amore dei padri.
Il rispetto lo mescolano con il veleno, quando innaffiano.
Per questi, il lamento non è mai finito.
Eppure riempiono le casse dei depositi e…prestiti.
Torno sulla strada principale, entro in paese.
Il cubano non c’è più, davanti alla porta, a fumarsi il sigaro. E’ morto pochi mesi fa. Non mi ha dato il tempo di fotografarlo.
Mi faceva impazzire, tutte le volte dovevo scansarlo con la macchina, perchè camminava al centro della strada.
Una volta gli ho suonato il clacson. Si è girato e, minacciandomi col sigaro, in dialetto, mi ha chiesto
“Cos’è che vuoi?!”
“La strada non è la tua.”

C’è un bel movimento.
E’ sempre così a quest’ora, ma domani si svolge la fiera annuale delle bestie. Oramai è un mercatone pieno di sedie di vimini, le bestie, sono i pesci rossi e i pulcini.
Quelli che ti mettono nella busta da portare a casa.
Però puoi ancora comprare gli attrezzi per i campi, vanghe, accette, fatte dagli artigiani.
C’è movimento, a maggio si vota.
I candidati “passeggiano la piazza” con i fedeli del comitato elettorale .
Salutano, ammiccano. Fermano le macchine che passano lente, sulla strada principale. Guardano di sottecchi.
Non sono una loro votante.
Uno fa egualmente il tentativo.
“Carissima”
“mamma come sta?”
“il papà?”.
“Me li saluti tanto.”
“Non mancherò.”
Proseguo, in processione, e mi guardo intorno. Questo maledetto paese. Alzo il volume dell’autoradio.
I pali delle luminarie, per l’imminente festività, rendono la strada più stretta.
Devo rimettere continuamente la prima, per dare la precedenza all’indolenza dei nativi.
Gli hanno costruito larghi marciapiedi, ma continuano a camminare al centro della strada, ti vedono arrivare e rallentano, per guardare meglio.
Hanno un fiuto speciale, come segugi scovano l’intruso.
Sui muri, sfilano i manifesti per un 70° di Gramsci.
C’è movimento.
I ragazzi e le ragazze si staranno preparando per il 25 aprile, per la festa dell’Annunziata.
Staranno cercando compari e commare o vanno in merceria, a comprare fiocchi colorati per il rito magico.
Chissà se ricevono in regalo la spilla d’oro con il proprio nome.
Il significato di questa festa, è stato stravolto. La chiesa ha conservato la cerimonia, ma per celebrare la Madonna dell’Annunziata.
La tradizione pagana, invece, era una iniziazione sessuale.
Colei e colui che sceglievi, come accompagnatore (accompagnatrice), in questo passaggio stretto, rappresentava la guida, il modello di riferimento.
La mia madrina, fu una sorella di mia mamma. Non fu una buona scelta.
Sono rimasti i “fiocchi” e i giri. Probabilmente si regalano un cellulare nuovo o la digitale.
Poi c’è la consuetudine religiosa.
Spesso precede, come la cresima, il matrimonio.
Mia madre mi ha messo, in un cesto, un po’ di fave novelle, sottratte al caldo e al topo talpato. I fiori che mio padre le ha raccolto dai campi e i carciofini appena messi sott’olio. Sanno ancora d’aceto.
Non la bacio mai, quando vado via.
Resta sullo scalino a guardarmi.
Abbasso il finestrino
“Ah, ma’ tanti saluti da…”
“Non vado a votare”
Mio padre le è comparso alle spalle.
“Ma se ti stanno asfaltando la strada”.
Stava sbottando con violenza, ma mia madre gli ha messo due dita sulla bocca, come un bacio.
Rialzo il finestrino e riaccendo l’autoradio.
Mi allontano tra strade interrotte e macchine per asfaltare.
A maggio si vota.
Cambiano le amministrazioni, ma prima delle votazioni, tutte, di destra o di sinistra o centro, non ho mai capito perchè, rappezzano e illuminano le strade.

°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°

Il topo talpato [19 marzo 2007]

E’ un piccolo roditore che scava galleria nel terreno. Come una talpa, ha il pelo lungo e lucido. Non è cieco e ha il muso e le zampette del topo.
Esiste?
Senza dubbio, nella campagna di mio padre.
Gli mangia, tutti gli anni, i germogli delle piante di patate, piselli e fave novelle. Rosicchia i piccoli carciofi. Li sottrae a mia mamma che ne farebbe carciofini sottolio.

Diavolo di una bestia.
Sicuramente avrà un suo nome scientifico e anche uno comune, ma nella mia famiglia, tra amici e conoscenti diciamo topo talpato.

Mio padre è un anziano contadino. Tutte le mattine prende l’automobile o la bicicletta, in primavera, e va nel piccolo podere, internato, tra grandi proprietà.
Zappa, si guarda gli alberi, raccoglie asparagi e cicorielle.
Un tempo mio nonno aveva piantato garofani rossi e una pianta di rose. Mia nonna li metteva sul comò, in camera da letto, davanti alle immagini sbiadite dei defunti.

Mio padre conosce solo gli alberi da frutto e con i fiori s’incasina. In giardino, per esempio, è riuscito a trasformarmi la magnolia che è un arbusto, in albero con tronco lungo e sottile.

In campagna non si annoia, raramente, incontra qualche coetaneo con cui chiacchierare. Pensa e continua a farsi domande importanti.

Un tempo era un bracciante agricolo.
L’uso dei termini è importante.
Contadino era quello che aveva un po’ di terra, sua o in affitto e la coltivava.
Lui, orgogliosamente, bracciante, operaio della terra. Di quelli che un tempo venivano assoldati nella piazza dal uantiere, il caporale.
C’era anche l’equivalente femminile l’antera, e la piazza delle femmine. Perché il sesso si prendeva i suoi luoghi di lavoro.

Pigro e svogliato, non aveva voluto frequentare la scuola. Il tempo di fare la firma. Via ad imparare il mestiere.
Il migliore nella categoria di innestatore e potatore.

Socialista e facinoroso aderiva a tutti gli scioperi, serrate e picchetti che i sindacati organizzavano, in quegli anni, nelle campagne. Non si scherzava negli anni ‘60.
Non avrebbe trovato, sicuramente lavoro, testa calda. Ma di lui, il migliore, non si poteva fare a meno. Novantanove su cento, le piante di ciliegio, innestate, attecchivano.
Gli alberi e le vigne potati da lui, i più ricchi di frutta.

Quei tre anni all’elementari gli avevano, comunque, insegnato a leggere, a sillabe, lentamente. Ma di tempo ce n’era.

Mia madre, affascinata dal racconto, continuava la tradizione di suo nonno e ci affabulava dinanzi al caminetto. Mio padre leggeva con frustrazione i giornali.
Perché il tempo, comunque non lo aiutava a capire le parole. Lui era povero ne aveva poche in saccoccia. E quelle usava.
Per tanti ragionamenti, perché lui, il bracciante salariato si faceva domande importanti e aveva scoperto che la ragione sa dare risposte.
Ma sempre poche le parole. Comunque poche le parole che possedeva.
Il padrone ne aveva molte di più e anche quei giornali che leggeva ne scrivevano di difficili. E lui capiva che lo confondevano.
Poi sono arrivate le mie elementari. E la befana portò il vocabolario.
E’ diventato il libro preferito di mio padre.
Lo ha studiato sistematicamente, consultato all’occorrenza, in pratica, sempre.
E quando il padrone diceva parole sconosciute, quando leggeva parole complicate, prendeva un pezzo di carta e se le appuntava. Poi tornava a casa e iniziava il lavoro di capire.

Ha sempre creduto che la promozione culturale è la vera promozione sociale, perchè contribuisce a potenziare le scelte.
Dice che un padre deve mettere le condizioni perché i propri figli abbiano più possibilità dei propri genitori. La sua rivoluzione era questa.

Col tempo le sue tasche si sono riempite di nuove parole e significati.
Mia madre continua a trovare bigliettini dappertutto, nei pantaloni, nelle giacche.
Parole sparse.
Ma lui continua ad usare sempre le sue, poche e semplici.

A un suo compleanno gli abbiamo regalato un vocabolario, nuovissimo, con tutti i sinonimi, i contrari e i neologismi.
Ci ha messo del tempo ad apprezzarlo, preferiva quello vecchio, logoro.
Una parola, un significato. Semplice.
Questo nuovo, per ogni parola una estensione di significati. Complicato.

Meglio inventare nuove parole, il topo talpato.
O ammazzito. Di qualcuno smunto, smagrito.
Noi usiamo sempre questo termine nelle conversazioni “da quanto tempo, ma ti sei ammazzito?!”.

L’altra sera, a cena, ne ha inventato un’altra: mummiare.
Non vuol dire imbalsamare, no. E neppure procedere come un insaccato.
Vuol dire fasciare.
Elementare no.

Aggiornamento: mio padre da in po’ di tempo legge libri. Ha iniziato con quelli di storia, ora è passato al romanto storico e alla saggistica. Quando i lavori in campagna glielo permettono, legge un libro al mese.
L’ultimo, che gli ha regalato mia figlia, è di Leonardo Sciascia “La scomparsa di Ettore Majorana”.

P. Mascagni, Cavalleria Rusticana – Intermezzo

Com’era verde la mia campagna [6 marzo 2007]

E’ arrivato il tempo di potare le vigne.
Non l’ha deciso la luna.
C’è che fa troppo caldo, bisogna fare presto, che le gemme son gonfie.
Il vento porta l’odore acre dei lunghi tralci che vengono bruciati e fumo grigio nel cielo azzurro.

I rami vengono tagliati con mestiere, raccolti, accatastati in falò e poi bruciati.
Cenere alla terra, per concimare gli alberi.
Un tempo, ci facevano cuocere patate e lambascioli sotto quella cenere calda, o ci sbruciacchiavano le cipolle, quelle lunghe, da mangiare a morsi, con il pane.
Poi lunghe sorsate di primitivo dalla bottiglia. La bocca veniva pulita, passando la manica e via, di nuovo a potare, sino al tramonto.

Le donne, smettevano sempre un po’ prima.
Il loro compito era quello di raccogliere i tralci e portarli in fondo ai filari per tagliarli, per farne fascine da portare a casa, per l’inverno.
Prima di andar via, raccoglievano asparagi selvatici, erbe da fare in insalata o da cucinare con la pasta.
Erbe con nomi in dialetto o nessun nome.
Raccoglievano teneri germogli di [salsapariglia], per la frittata e dei piccoli [iris] da mangiare in insalata.
Non mi ricordo raccogliessero borragine, che pure c’era in abbondanza lungo i margini della strada.

Poi legavano le fascine sulle biciclette che portavano dal manubrio, loro a piedi, lente, si fermavano a raccogliere cicoria.

Ricordo due sorelle, anziane, passavano tutti i giorni, mattina e sera, con una bicicletta verde, lucida, il cestino e dentro la gallina.
La portavano in campagna, con loro. Non si fermavano a parlare con nessuno e non si giravano neppure quando erano chiamate dai cori dei ragazzini.

Mia madre tornava a casa con fasci di calendule, prima ancora che io imparassi a memoria la donzelletta. Quelle di color giallo chiaro. E con rami di biancospino, giusto per far sanguinare un po’ le mani e per metterli, oramai spogli, nei portafiori.

Noi bambine, infatti, prima che potesse entrare in casa ci facevamo cadere in testa tutti quei piccoli petali bianchi, battendo le mani “evviva la sposa, evviva la sposa”.

Il colore dominante verde, nei campi, alto nei prati incolti, e nei rari campi a seminativo. Lungo i bordi delle strade.

Guidavo piano, oggi pomeriggio, per non perdermi neppure un punto di verde. E di giallo.
I finestrini aperti, per sentire il profumo di quei piccoli falò.
Poca borragine ai margini e i mandorli che vanno perdendo petali.

Tutto quel verde ha i giorni contati.
C’erano i trattori a rallentarmi l’andatura. Portano occhiali neri, come spioni, i trattoristi, e parlano col cellulare. Non distinguono gramigna da erba medica.
Lenti, ma tesi alla scopo, eliminare tutto quel colore verde.
Vanno a rivoltare zolle, ricolorano di marrone.

Poi sono andata in terrazzo, a raccogliere le lenzuola che avevo steso al sole.
A piegarle con calma, come in una giornata particolare.
Le poso nel cesto, senza fretta, restando a guardare mentre sventolano leggere, il tempo di staccare, senza schiacciarlo, un verme nero e rosso attaccato ad una federa. Verme della vigna, direbbe mio padre, che quella è l’unica differenza. Solo vermi, con preferenze: mandorli, ciliegi, ulivi o vigne.

E tutte le volte mi stupisco e mi compiaccio.
Dopo aver sollevato il cesto con i panni ripiegati, resto ferma.
Lascio che il sole mi disegni l’ombra, lunga. E la spezzi contro il parapetto della terrazza.
Vedo una immagine antica, una donna che stringe contro il petto un cesto di panni.

Il silenzio e la lentezza disciplinano la terra.
Le auto, poche, procedono tenendosi a distanza. I pedoni, stanno sulla strada, per non scivolare, evitando i marciapiedi ghiacciati.
La neve balla un silenzioso slow, prima di posarsi.

Basta una notte, per cambiare i colori e l’aspetto delle cose.
Persino l’erba lungo i margini si può spacciare per qualcos’altro. La gramigna, per esempio.
La neve che si è appoggiata sulle spighe ha formato delle monetine trasparenti.
Le sterpaglie sono diventate piante di cotone. Sulle foglioline la neve, forma dei fiocchi, gonfi come ovatta. Sulle fronde degli alberi è caduta la manna.
Vai a sapere perché, ma la neve posandosi ha preferito prendere una forma tonda.

Ognuno ha il suo vestito, anche gli alberi spogli. Fasciati in tubini bianchi.
Le pale dei fichi d’india sembrano sculture estrose.
I pascoli appaiono ancora più estesi, il bianco dilata lo sguardo.
E’ bella questa campagna.

Procedo con lentezza, per godermi i paesaggi. I trulli innevati.
Il pericolo sulla strada non è il ghiaccio, hanno spazzato, pulito. La temperatura si è rialzata e la neve si scoglie, sulla strada bagnata.
Il pericolo è la pezza.
Il rattoppo che abitualmente viene fatto sulle provinciali.
Quel bitume che utilizzano per riempire le buche e che l’acqua e il ghiaccio fanno sparire.
La trappola preparata per pneumatici e semiassi.

La tentazione è di parcheggiare e andare a giocare.
Non ho il senso per la neve di mia madre, le ricorda la guerra e la fame e neppure quello dei contadini, si preoccupano per il raccolto, per le gelate sugli alberi.
Per me la neve è festa. Non si andava a scuola.
E’ gioco.
Da bambina.
Mi coprivano bene, cappottino, passamontagna, guantini, galoche e via a giocare con i ragazzini. Portavamo la carriola costruita con le assi di legno sulle strade in pendenza e a turno, due salivano sopra e un altro spingeva.
Se c’era tanta neve, ci lasciavamo ribaltare.
Tornavo a casa con il naso rosso che colava, gli occhi lucidi di contentezza.
Per fortuna non c’era mia madre a guardarmi. Le sarebbero venute le palpitazione. Ero una bambina di salute cagionevole e mi ero fatta la pertosse. Per farla contenta non dovevo tossire.

Così, quando sono diventata madre, per riscattarne la figura, dopo una bella nevicata, vestivo i miei figli e con Hopi andavamo a giocare in giardino, a costruire il pupazzo di neve.
Gioco preferito. “Tutti sotto l’albero di arancio“.
Scuotevo i rami e lasciavo che la neve ci coprisse.
Che strilli! eccitavano Hopi che ci saltava addosso per baciarci.
La scusa per rotolarsi nella neve.
Tu sei più bambina di loro” diceva mia madre.
E una madre dice sempre la verità.

Per poter giocare, quando non nevicava, andavamo in Basilicata.
Un anno, nel bosco di Gallipoli Cognato, ad Accettura, organizzammo una vera battaglia di neve.
Avevamo occupato, in venti, l’unico albergo del paese.
Mentre la padrona ci preparava la pasta fatta in casa, decidemmo di fare una passeggiata nella neve, in quella foresta delle meraviglie.
Arrivati, i bambini presero l’iniziativa e ci diedero l’esempio.
Si formarono spontaneamente le squadre, c’era già del malanimo tra cittadini e provinciali.
Preparammo le munizioni. Grosse palle di neve.

Inizio la battaglia. .
Fermi, a tirare come scemi, palle che manco raggiungevano l’obiettivo. Per fortuna, il Ferry, stanco di quella guerra di posizione, decise la sortita. Si caricò le braccia di palle di neve e urlando come il secondo tragico Fantozzi, iniziò a correre verso il nemico, incurante e sprezzante delle palle di neve avversarie che lo colpivano.
Fu travolto da un branco di maiali rosa, piccoli e graziosi e da altrettanti maiali cinghialati, più massicci bianchi e grigi.
Una disfatta pazzesca.
La vendetta venne consumata, calda, all’ora di pranzo, quando ci fu servito il secondo.
Arrosto.

10 commenti su “[La luna e i falò]

  1. “si fermavano a raccogliere cicoria”
    non ti commento tutto il post… ti dico solo che mi sembrava di essere affacciata all finestra della cascina a guardare il panorama, il lavoro dei campi, tutto quel mondo genuino intorno a me.
    Quella frase che ho racchiusa tra virgolette mi ha strappato una risata ripensando a quando andavamo – tutta la famiglia di mio marito…sorelle, fratelli, figli e nipoti – nelle campagne intorno a Firenze dove era trascorsa la loro infanzia…
    Andavamo a cercare radicchio, asparagina, cicoria…
    Io – unica cittadina – chiedevo a mia suocera un campione delle erbe da cogliere che altrimenti non avrei riconosciuto…..
    Poi ho imparato anche io…..

  2. Pingback: Chi è la madre? « myfavoritethings

  3. mi hai fatta sognare con la descrizione della vendemmia e piangere per il mese di giugno. che bella scrittura e che belle immagini. Grazie

Lascia un commento