Immaginate una stoffa dice

Nella Repubblica, Platone spiega come il coraggio (andreia) sia necessario in ogni evenienza, estrema e non. Esso consiste nella capacità (dell’individuo, della città) di farsi un’opinione su ciò che è temibile o non lo è, e di «salvare tale opinione». L’opinione da preservare, sulla natura delle cose temibili, «è la legge e impiantarla in noi attraverso l’educazione», e il coraggio la conserva «in ogni circostanza: nel dolore, nel piacere, nel desiderio, nel timore» (429,c-d). La metafora usata da Platone è quella del colore. Immaginate una stoffa, dice: per darle un indelebile colore rosso dovrete partire dal bianco, e sapere che il colore più resistente si stinge, se viene a contatto con i detersivi delle passioni.

Il colore della democrazia è la resistenza a questo svanire di tinte, a questo loro espianto dal cuore (il cuore è la sede del coraggio). Compito dei cittadini e dei custodi della repubblica è «assorbire in sé, come una tintura, le leggi, affinché grazie all’educazione ricevuta e alla propria natura essi mantengano indelebile l’opinione sulle cose pericolose, senza permettere che la tintura sia cancellata da quei saponi così efficaci a cancellare: dal piacere, più efficace di qualsiasi soda; dal dolore, dal timore e dal desiderio, più forti di qualsiasi sapone» (430,a-b). Il colore della democrazia, Barbara Spinelli

Impressions

Ieri sera ho rivisto su Sky, Il giorno della civetta (1968) tratto dall’omonimo libro di Leonardo Sciascia e Cadaveri eccellenti del 1975, sempre ispirato da un libro del grande scrittore siciliano, Il contesto.

Nel primo c’è una notevole forza dei dialoghi e della parola, nel secondo delle immagini e della ripresa. Uno è un film sulla mafia, l’altro sulla politica. 

Per qualche minuto, facendo zapping – Il giorno della civetta l’ho visto tante di quelle volte,  da ricordarmi espressioni e dialoghi – ho incrociato Scamarcio e De Maria – credo si chiami così il regista de La prima Linea – dalla Dandini. Punto!

Fuori c’è un grigiore metereologico e umano, il caffè non è dei migliori, per Natale mi regalo una macchinetta nuova, il primo panettone è sempre buono, invece. Certi prezzi quest’anno, poche offerte e su prodotti scadenti. Sugli scaffali è in vendita la crisi, c’è poca merce. Incredibilmente -si fa per dire – sono tornati i beni di consumo per ricchi e quelli per le classi meno abbienti. Toh, le classi!

Anche la musica è datata – ho avuto fortuna e un contesto favorevole, qualche merito personalebellissima. Coltrane e Dolphy, divini.

Siamo più liberi

V’era una

impostazione antica, anch’essa fascinosa, al punto da divenire di moda nel mitico ’68. E cioè l’idea che tutto fosse “socialmente” costruito. Quante volte a Trento si sentiva ripetere che noi eravamo il riflesso della società e della cultura in cui ci si trova a vivere.

Quarant’anni dopo, uno studioso serio come Giovanni Jervis ci parla del prototipo dell’antipsichiatra, figura mitica del ’68:
se non ci fossero cattive interferenze sociali, la nostra mente sarebbe accettabilomente sana e felice. In questo modo ci si convince che il male è sempre altrove, e che i guai nascono dai pregiudizi della società borghese o dalle macchinazioni di medici e biologi.
Jervis conclude che questa corrente culturale è in via d’estinzione.

Sono questi eccessi di un passato recente che, per contrasto, rendono oggi così dirompente la scoperta che non solo l’uomo ha un corpo, il che è noto e ovvio, ma che cominciamo a conoscere da vicino come funzionano le connessioni mente-corpo, ipotizzate fin dai tempi di Cartesio. In altre parole i vari “neuro” [spiegazioni neuro ndr] svolgono una funzione positiva nel dimostrare che non tutto è frutto dell’apprendimento e della nostra biografia (e dell’ambiente sociale).
Ci piace pensarci così, come persone che non sono il frutto esclusivo delle nostre vite particolari e, quindi, dell’ambiente specifico in cui siamo stati allevati. Grazie alle scoperte della genetica, non crediamo più alla favola che l’uomo viene al mondo come una tabula rasa, plasmata poi dalla società e dalla cultura in cui gli capita di vivere. E questa consapevolezza, in certo qual modo, ci rende liberi. (Legrenzi Umiltà, neuromania)

I’m free, The Who

Pesa la penna

Manco fosse una zappa (‘na zapp).
Gli pesa la penna p’ssorè.
[Dicono così i genitori dei ragazzi svogliati]

I padri contadini che la zappa in campagna non la usano più, eliminano l’erba con il veleno e possiedono (o affittano) i trattori con tutti gli accessori. Come il “Bimbo” che le mogli hanno in casa.

Le fave vengono benissimo.
Tu lo tieni il Bimbo?
[Dicono, se non ce l’hai sei antica, antiquata. Povera, perché se uno ha i soldi deve dimostrarlo, comprando oggetti]

Mia nonna avrebbe inorridito: la mattina alle otto preparava ” ‘u miss” (quantità giusta) delle fave nella pignatta di terracotta e lo copriva d’acqua. Mio nonno, intanto aveva già acceso il fuoco, sistemando la legna “a parapall”. Litigava sempre con la nonna, per questo modo di preparare il fuoco. Siccome brigava anche mia madre con mio padre ho sempre pensato che ci sia un modo maschile e uno femminile, per accendere il fuoco. Le donne appoggiano pochi legnetti e qualche tronchetto sottile, il giusto, per avviare la fiamma, caricandola all’occorrenza. I maschi lasciano sotto la legna una “camera d’aria”, e accatastano più tronchi. Una preparazione più “enfatica” “a parapall”. Sarebbe lecito pensare che il termine indichi quell’ammennicolo su cui Tafazzi si scatena e invece il “parapall” è una palla di pezza, attaccata ad un elastico. Si usa come uno yo yo con la differenza che bisogna “parare” la palla.
Forse indicava una situazione di confusione: il nonno veniva allontanato, la nonna raccoglieva con la paletta i rami bruciacchiati che cadevano sul pavimento, borbottando sulla nota inefficienza maschile. (Infatti sono proprio contenta di essere nata femmina.)
La casa di nonna era composta da un sottano (u iuse) e da una abitazione su due piani. Nel sottano c’era una piccola stanza (ricavata sotto un’arcata) per il fuoco. Si saliva lo scalino per entrare e lateralmente aveva mensole e sedili di pietra per seguire comodamente la cottura dei cereali e degli ortaggi (peperoni arrostiti e patate sotto la cenere) della carne e delle “tiedd” (tegami) di carne o di pasta. E per riscaldarsi le mani, d’inverno, mentre si ascoltavano i racconti e le storie degli “avi”.
Una umanità identificata dagli attrezzi di lavoro “uomo di zappa” e “uomo di penna”. Oggi non si usano più, ma è rimasto un certo modo di parlare, soprattutto tra i più giovani.
E, dunque, dicono “gli pesa la zappa” con la pronuncia che si compiace sulla za, come quando raccontano una sconcezza.
Il professore sorride e comprende, lo dicevano anche a suo padre e lui è ben contento di tornare in campagna. Ogni anno, si assenta prima ad aprile e poi prende le ferie a maggio.
Signora mia, se cominci a pagare gli operai, non ti resta niente nella tasca. Con la crisi che c’è! [Racconto da un Paese che non conosce mai crisi]

I medici candidati

come mai tanti medici in politica?
Stesso pensiero mi è venuto, sabato notte (e una ci dovrebbe pensare, prima di guardare, per salvaguardarsi la nottata) dopo cena, stordita dal profumo del pergolato di glicine, guardando i manifesti affissi per le elezioni provinciali.
Facce photoshoppate di medici (noti) candidati nel Pdl e nel PPdT.
Pi Pi di Ti? La Puglia Prima di Tutto, formazione politico-personale di Raffaele Fitto.
C’è un incremento di medici, ho pensato, che si candida in politica – ovviamente con le carriere e i concorsi più o meno bloccati, hanno famiglia, si sacrificano per noi.
E per farli sentire come in reparto vengono affiancati dai paramedici: tecnici di radiologia, addetti ai laboratori d’analisi ecc.
Comunque non è recente il loro “impegno politico”. Il medico di famiglia (quando ero bambina) era un consigliere del partito socialista. Un bravo medico e un politico discreto (un buon amante, soprattutto, alzavano gli occhi al cielo le signore), l’unico capace di contrastare un sindaco democristiano votato sempre a maggioranza assoluta, figlio del popolo, medico anche lui, ginecologo, per la precisione (l’aborto era ancora illegale).
Poi, alla fine degli anni settanta, tornò in paese un rampollo della nobiltà locale, con una laurea in medicina presa chissà in quale università. Non era proprio giovane di primo pelo, ma era l’unico, della famiglia importante e decaduta, a non essere impazzito e ad avere un lavoro. Occupò poche stanze del bel palazzo di famiglia e iniziò a fare il medico della mutua.
Nella provincia contadina il medico è considerato alla stregua di un mago, infatti la fortuna di don… incominciò il giorno in cui “indovinò” la malattia di un compaesano. Il miracolato, i suoi vicini e parenti diffusero la notizia, in tutto il paese. Nel giro di un anno, indovinando malanni e “trovando la dritta” (azzeccando il rimedio) si accaparrò un notevole numero di pazienti. Accorreva di giorno, di notte, sempre disponibile, soprattutto con i più poveri e con gli anziani.
Con tutti questi impegni riusciva comunque a frequentare la locale sezione del PSI. Andava in giro con l’Avanti in tasca, camminava lentamente per fermarsi a salutare tutti.
Probabilmente aveva frequentato l’Università di Napoli e, in quella città – diceva, aveva conosciuto De Martino (che dimenticò subito, per seguire Craxi e Signorile).
Tornato in paese aveva ripreso nelle proprie mani la conduzione delle terre, sino ad allora affidate alle cure di uomini e donne di fiducia.
Incominciò con le migliorie piantando nuove colture, pagando i braccianti con la tariffa sindacale. Regalò una masseria alla donna che gli aveva dato due figli e prese moglie.
Diventò il segretario della locale sezione del partito socialista e formò una squadra così forte da vincere le elezioni. Diventò il primo e unico sindaco socialista che il paese abbia mai avuto. Gli anziani (e tanti giovani) lo votarono in massa.
Il medico socialista fu una vera novità anche nell’ambito della comunicazione politica: alla paura cattolica “in cabina Dio ti vede” affiancò il timore laico della [potrebbe darmi una] “medicina contraria”.